“Benching”, “breadcrumbing”, “ghosting”, “zombieing”: termini apparentemente oscuri ma che, a una più attenta analisi, descrivono comportamenti che, ahi noi, conosciamo tutti fin troppo bene. Questi anglicismi si usano per definire i “diversi gradi di sparizione” all’interno delle relazioni, sempre più rarefatte, del ventunesimo secolo. Perché nella “società liquida” (espressione coniata da Bauman) quasi nulla della sfera lavorativa e privata ha contorni nitidi, definiti e definitivi. Tutto scorre, si decompone e si ricompone alla velocità della luce, in un continuo mordi e fuggi teso a soddisfare il bisogno momentaneo dell’individuo-consumatore. Impegno e cura sembrano risultare poco funzionali, scomodi e, se non addirittura, seccanti.
Con il termine “benching” – letteralmente “in panchina” – si indica quel temporeggiare tipico di chi non è del tutto convinto di voler instaurare
una relazione con la persona con cui ha iniziato “qualcosa”. Si prende, quindi, del tempo per rispondere ai messaggi, dà risposte vaghe, genera lunghe attese (e frustrazione). E chi aspetta si sente, appunto, in panchina, mentre il/la temporeggiatore/trice, chissà, si guarda attorno per vedere se trova qualcosa “di meglio”. Da una parte, quindi, l’egoismo di chi, nel dubbio, preferisce tenersi aperte tutte le strade; dall’altra l’incapacità del soggetto relegato in sala d’attesa di aprire gli occhi e, con un rigurgito di amor proprio, dire “basta”.
D’altronde, al “benching” in genere si affianca anche il “breadcrumbing”: a chi aspetta vengono, di tanto in tanto, somministrate delle briciole di attenzione (un messaggio, un like) in modo da continuare a far parte della vita di quella persona, a cui naturalmente servirà un surplus di forza di volontà per voltare pagina. Tipico della sindrome dell’intermittenza è creare – false – aspettative e confondere le idee.
Ad un certo punto, spesso, cessa anche la somministrazione delle briciole: eccoci di fronte al “ghosting”
che, secondo il New York Times, consiste nel “mettere fine a una relazione interrompendo tutti i contatti e ignorando i tentativi di comunicazione dell’altro”. Quando la persona scaricata cerca un contatto, il fantasma, se risponde, accampa in genere scuse lapidarie del tipo “sono molto occupato/a”. La tecnologia che abbiamo tutti a disposizione ovviamente facilita questi modus operandi: perché prendersi la briga di affrontare una persona dal vivo quando è così semplice e poco costoso sparire dalla sua vita? Ovvio: come è facile “esserci” mandando un segnale ogni tanto su Whatsapp e sui social, così è facile svanire nel nulla. Legami deboli, appunto, tipici della “modernità liquida”: molteplici, rarefatti e intercambiabili.
Ma… colpo di scena!: a volte i desaparecidos ritornano dall’oltretomba. Sì, proprio come gli zombie, gli/le “ex-qualcosa” dopo un po’ – anche mesi, a volte addirittura anni – danno un segno di vita: il solito like, oppure il classico, urticante, “come va?”. Esatto, come se niente fosse. Come se vi foste sentiti fino all’altro ieri. Magari non sapevano cosa fare, e hanno scorso la rubrica imbattendosi nel vostro nome (mai cancellato che non si sa mai). Gli inglesi usano un verbo che rende benissimo l’idea di qualcuno che – pouff! – riappare dal nulla: “to pop up”. Efficace no?
Ecco, allora voi fate un bel respiro e, con nonchalance, ricacciate gli zombie nel nulla da cui sono riemersi, perché le relazioni sono fatte di persone disposte ad abbandonare la proprio zona di comfort (con tutte le certezze e le comodità che sottintende) per abbracciare, felicemente e consapevolmente, la splendida incertezza di essere in due.
Elisa Pordon
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